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The Irishman: la recensione di loland10

The Irishman: la recensione di loland10

“The irishman” (id., 2019) è il ventisettesimo lungometraggio del regista newyorkese Martin Scorsese.
“Se hanno fatto fuori Kennedy
Figurati per un sindacalisti.”
L’ultimo Scorsese è quello che ci aspetta. Nel senso massimo di/del genere e con sontuosità di ripresa, realista e secca, poco incline ad uno spettacolo oramai passato. Un film che diventa lezione di recitazione intensa, di spazi ripieni, di memorie vinte, di ambienti oscuri e di velleità temporali. Lo sguardo del newyorkese non è mai arte fine a se stessa ma è rigore e forza silenziosa di un cinema che ‘supera’ lo schermo piatto (nonostante le difficoltà produttive e anche per queste).
Il summa scorsesiano è salutare per il cinema nato nella New Hollywood e vive di un mondo e modo di raccontare che è di uno stilema unico, un compendio, verrebbe da dire il compendio di inquadrature che oggi sono da studiare una per una. Niente di casuale nell’appoggio nella macchina da presa per i dialoghi, nello scorrere a nano i luoghi, nel cadere nei volti tra i tanti che si incrociano e nel visionare oggetti, ora pistole, ora sigarette, ora abbelli, ora borchie delle gomme, ora asfalti,, con un tocco di grande partecipazione. Si entra dentro lo scherma e già l’odore è forte per chi gradisce il cinema di Martin, con la scritta ‘Exit’….che compare più volte, siamo in un centro di cura o un ospedale per malati se si preferisce….e l’uscita è per pochi. Ma entri nel cinema non virtuale ma di racconto storico degli Usa (molte decadi) dalla parte ‘mafiosa’ cioè un altro mondo per rovesciare quello che si sa e quello che è dentro.
La sedia a rotelle di Frank Sheeran si vede dopo una piccola carrellata di altri ospiti. La ripresa gira e dal basso rimarca il volto ‘rigato, plastificato, vecchio’ con un biancore tumefatto, dell’ex imbianchino (che nasconde e vigila il passato) che con voce ‘roca e disillusa’ racconta a noi e al ‘suo Paese’.
Trama breve (il film dura circa 3 ore e mezza): Frank Sheeran è un mafioso che ripensa e rivede la sua vita tra giovinezza in guerra e poi sicario fino all’uccisione del leader sindacale Jimmy Hoffa; il suo ‘lavoro sporco’ è nel suo essere dentro la conoscenza della famiglia criminale Bufalino.

‘Ballata di morte’: riprendere i temi visti e registrati, non avere paura del dietro le quinte, la malavita dentro se stessa, la visuale delle storie, il mondo distorto e le pallottole tra bande e persone. Il potere del male è il potere dell’uomo….
‘Ballata senza verità‘: un gioco per Martin scombinare la storia ‘americana’ per renderla visibile, scornata, scevra e priva di velleità fine a se stesse; il cinema ripiomba tra piccolo e grande schermo; il tutto ‘scorsesiano’ si compiace di pica moda, ma vibra nella finzione tra un ‘fuori orario’ privo di logica e un ‘bambino-girovago’ alla ricerca della settima arte.
‘Ballata di un film’: il newyorkese arriva all’epilogo o quasi, al suo silenzio come manifesto, alla sua camera (cine, da letto, da sogno, buia e pestifera) socchiusa; non si lascia che un leggero spiraglio. Il The end non è mai da scrivere. Il cinema di Scorsese è subliminale tra una fine di ‘irishman’ è un inizio di un capitolo da inventare. È la confessione segreta di un prete….giovane…per un domani da vivere in un paradiso inesistente.
‘Ballata dei volti’: le sfumature, le camminate, i ritocchi, le rughe, le simbiosi, gli scontri, i dialoghi, i fuochi e le polveri sono disdette per un film fiume dove lentezza e velocità vanno di pari passo e dove ogni lezione pare l’ultima come una prima (di opera). Scorsese libero di muoversi, senza un gesto dietro, con una carriera da aprire e una scatola regalo da infiocchettare.
‘Ballata New Hollywood’: la entry per una exit che appare subito; uscite se volete, non dormite se vedete, ascoltate se desiderate; l’uomo ‘Hirish’ racconta il passato, vede il presente e non socchiude il futuro; il testimone di un cinema vecchio che diventa nuovo e di un manifesto delle origini. Il tepore di un grande schermo eh si ricuce il cantuccio di una speranza da ingrandire. La tv scorsesiana è grimaldello per produttori ignari e per scorribande abbondanti. In un flauto leggero e dilatato, la magia appare vena per un cinema che si espande sempre più. Mai chiudere una porta. È il cinema hollywoodiano senza esserlo mai.
‘Ballata per un destino’: è una movimento di macchina poco corposo, asfittico, sottrattivo, essenziale e per nulla vuoto. Pieno di storia di un Paese corrotto dove il punto di vista è dietro (e per il regista sembra davanti la macchina) e ogni colpo di pistola o arma da fuoco sono il rito della cronaca nera ma talmente forti che il silenzio è l’ossimoro del giornalismo che racconta. Ecco che l’America divelta e morente resta viva nel racconto di Frank: viva di morte lontana. La N.H. resta a guardare.
‘Ballata di un(a) fine’: una rifioritura grigia e offuscata di una storia che Martin ha sempre detto. Anche in ‘Silence’ (da lontane storie e da lontani set) l’umore è decisamente forte; nessuno sconto per nessuno, per una morte che è avvenuta e per tragedie mai viste. Il cinema reale confonde e impatta tra quello di oriente e quello di Occidente; una crudezza viva e una morte che non arriva mai (‘la tentazione di Cristo’ è l’ultima), mentre il cinema non chiude mai lo schermo.

Musica del chitarrista canadese Robbie Robertson (oramai la collaborazione è di vecchia data): dilatata nel tempo e scandita nei tempi, tra vecchi spartiti e toni interiori; intensa ed emotiva.
Fotografia del messicano Rodrigo Prieto (aveva già lavorato con Scorsese in ‘The Wolf of Wall Street’ -2013- e ‘Silence’ -20’16-): assopita e nera, cupa e viva, morente tra balli, conferenze, tavoli e vie notturne; immagini dilatate nel tempo e pensieri di dominio.
Robert DeNiro (Frank Sheeran-‘The Irishman’): appare in forma, con o senza ritocchi, col suo amico regista poi, sembra una recita continua, talmente efficace e bella, da sembrare, ipoteticamente realista (si legge che le firme e iti chi Martin li abbia provato sul Robert facendolo re-recitare sul suo cavallo di battaglia ‘Goodfellas’….come una prova senza prove).
Al Pacino (Jimmy Hoffa): sembra di specchiarsi in banca per un ‘pomeriggio da cani’ che dura da lustri; un attore che ha sembianze scandite di grande forza vocale; movimenti e dialoghi veramente da ‘super’ premiato.
Joe Pesci (Russell Bufalino): vecchio e con rughe, ma la classe è cristallina; uno sguardo sbilenco e sghembo, un vociare frastornante, un decisionista senza scalfire l’abito; aspetta e riesce, guida e non si invaghisce; un attore che ammanta molto cinema sconosciuto.
Regia di M. Scorsese: il fraseggio di riprese è così immediato e splendido, che il film si fa da parte per il gusto ‘dietro le quinte’; tante scene, l’entrata nella storia ha qualcosa di fascinoso (i primi minuti hanno un qualcosa di immediato dentro), le giravolte della macchina ogni volta il personaggio è tra molti (nel processo gli altri girano dietro); poi nelle parti finali le riprese diventano un tamburo epilogo(ante) senza sforzo e con un gusto retrò, in alto tra fili e incroci, colori e statue ferme, mentre un auto e un’altra girano attorno, partono e ritornano (il tempo si fa avanti…).
Un Martin che disdice tutti e ammalia tutti. Un cinema che ‘manifesta’ la ripresa come pura arte. Oggi tra i registi…chi riesce a ‘poggiare’ la ripresa senza farsene accorgere e lasciando il segno….!?
Voto: 10/10 (*****) -cinema teso-
Ps. Visto in lingua originale,sottotitolato, sul grande schermo.
Nota: non è capibile mai perché certo pubblico accenda il cellulare,..per sentire l’ultima notizia…

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