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The Lobster: la recensione di Giorgio Viaro

The Lobster: la recensione di Giorgio Viaro

Un uomo viene abbandonato dalla moglie dopo undici anni di matrimonio e portato in un hotel di lusso. Deve trovarsi un partner entro 45 giorni, o verrà trasformato in un animale. Sceglie un’aragosta: “Hanno il sangue blu, come i nobili, e mi è sempre piaciuto il mare”. Si porta dietro il cane, in realtà suo fratello, che ha subìto lo stesso trattamento qualche anno prima. Ma che non voglia anche lui diventare un cane è molto apprezzato dall’amministrazione: ormai in giro ce ne sono troppi.

Nell’albergo dove i single sono reclusi è proibito masturbarsi, bisogna partecipare ad un certo numero di attività, tra cui i concertini tenuti dai proprietari, che dovrebbero favorire la confidenza tra gli ospiti. Ogni tanto vengono tutti portati nella foresta, dove è d’obbligo cacciarsi a vicenda con fucili carichi di fiale soporifere: chi viene beccato, ha chiuso.
Qualcuno scappa, e va ad ingrossare la resistenza, che persegue una filosofia opposta e altrettanto violenta: nessuna intimità, chi trasgredisce viene mutilato.
Ma all’amore non si comanda.

Non fatevi ingannare dal cast americano (Colin Farrell, Rachel Weisz, John C. Reilly) di The Lobster, il regista si chiama Yorgos Lanthimos (Kynodontas, Alps), è il nome di punta di un piccolo gruppo di cineasti per i quali si parla di new wave greca, ne fanno parte anche Alexandros Avranas (Miss Violence) e Athina Tsangari (Attenberg), sono passati tutti per Venezia. È cinema che rivomita la crisi del paese in quadri grotteschi a base di umorismo nero e distorsioni di ruolo sociale e familiare. Al centro di tutto c’è spesso una forma tragica, bestiale (l’idea del film è tutto tranne che un giochino) di egoismo, ma altre volte – più spesso – la crudeltà non ha bisogno di alcuna ragione, l’umanità è azzerata, come succede qui con una scena tremenda di assassinio di un cane, ripresa però con una fissità ebete (la camera si muove sempre poco, c’è molta frontalità, ogni tanto si pensa istintivamente a Wes Anderson) che insinua la tentazione della risata sconcia.

Parliamo, è chiaro, di cinema da festival in tutto e per tutto, non solo per la forma severa, ma pure per la ferocia nichilista e conseguente vaghezza di lettura (la solitudine è rivoluzionaria e ogni nucleo familiare è reazionario? Difficile capirsi, nessuno ne esce bene, gli unici sereni sembrano proprio gli animali), non ci sono punti d’appoggio, tocca lasciarsi andare, galleggiare sul catrame.

Leggi la trama e guarda il trailer

Mi piace: il modo stralunato e grottesco con cui si dipinge la violenza del condizionamento psicologico.

Non mi piace: i troppi piani di lettura che si accavallano.

Consigliato a chi: è in cerca di riflessioni divergenti sugli archetipi famigliari e sociali. A chi è curioso di vedere grandi star alla prova in un cinema distantissimo dagli standard hollywoodiani.

Voto: 4/5

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