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The Nest – Il nido, la recensione

Il sorprendente esordio nell'horror di Roberto De Feo, girato nella lugubre location piemontese di Villa dei Laghi

The Nest – Il nido, la recensione

Il sorprendente esordio nell'horror di Roberto De Feo, girato nella lugubre location piemontese di Villa dei Laghi

The Nest
PANORAMICA
Regia (4)
Interpretazioni (3.5)
Sceneggiatura (3)
Fotografia (3.5)
Montaggio (3)
Colonna sonora (3.5)

Samuel (Justin Alexander Korovkin) è un giovane ragazzo costretto su una sedia a rotelle che vive con sua madre Elena (Francesca Cavallin) a “Villa dei Laghi”, una residenza isolata circondata da boschi. Bloccato nella routine familiare e con il rigoroso divieto di allontanarsi dalla dimora, Samuel cresce apparentemente protetto, ma insoddisfatto e irrequieto. L’arrivo dell’adolescente Denise (Ginevra Francesconi) scardinerà definitivamente gli equilibri della famiglia.

Un uomo, nel cuore della notte, che tenta di abbandonare una villa insieme a un bambino più che neonato. Lampadari antichi, superfici sfiorate dalla luce fioca della penombra, dettagli immobili e angoscianti, scale a chiocciola, rumori vicini e lontani. È da quest’ambientazione nobiliare e mortifera che prende le mosse The Nest – Il nido, la singolare opera prima di Roberto De Feo, alle prese col suo grande salto nel lungometraggio dopo aver diretto corti dall’eccellente riscontro come Ice Scream e Child K, primo cortometraggio italiano a uscire negli Stati Uniti grazie a Sir Branko Lustig, produttore di Schindler’s List.

Un film che rincuora e appaga per la capacità di cimentarsi col cinema di genere di casa nostra, oggigiorno più che mai boccheggiante e moribondo, ripristinando quella tradizione di altissimo artigianato di cui molti nostri cineasti si sono in passato fatti portavoce. Come il prologo chiarisce fin da subito, l’occhio di De Feo è totalmente innamorato della sua location unica, la magione dismessa di Villa dei Laghi (uno sazio dagli echi mitteleuropei, per fascino e architetture), e vi si immerge con un’ispirazione tattile, attento alle minuzie, alle ambiguità, ai bagliori, alla grana pastosa e vivida tanto delle degli oggetti quanto dei suoi ospiti.

«Lascia che la musica respiri», dice a un certo punto la strepitosa e terrificante mater tenebrarum interpretata da una notevole Francesca Cavallin al figlio Samuel dandogli lezioni di musica, e The Nest sembra fare lo stesso con le sue immagini. Accarezza con dolcezza innocente ma anche un po’ sensuale un’abitazione che è scrigno dei tesori di un’infanzia negata: un microcosmo autonomo, turbato dall’orrore ma anche da una forma scomposta e inattesa di tenerezza. Un guscio materno e terribile, attraverso il quale parlare di solitudine, timore del mondo esterno, apprendistato amoroso e, ovviamente e a compimento e sintesi di tutto ciò, anche di romanzo di formazione.

Temi senz’altro basici e facilmente universali, che The Nest ammanta però di una strana magia soprannaturale, di un candore lugubre che somiglia a un’oasi nel deserto se confrontato con l’orizzonte asfittico del cinema italiano industriale di oggi, che ha provveduto dopotutto a espellere e rinnegare, come fossero scorie indesiderate e oscene, tanto la paura quanto la sessualità.

De Feo per fortuna sceglie una strada inversa: abbozza il collasso della borghesia, azzarda un twist di genere finale all’americana, gioca con suggestioni alte e pop (The Truman Show e Hill House, The Others e The Village, ma anche gli elettroshock kubrickiani e i totali alla Lanthimos) e dilata il piacere della visione aggrappandosi a una lancinante e sussurrata versione al pianoforte di Where’s My Mind dei Pixies, loop tra i più ipnotici della storia del rock, perfetto per un film che è un’immersione in mari sconosciuti, fotografata e immortalata come se ci trovassimo dentro un acquario (senza tacere, ovviamente, dell’apporto di Teho Teardo in colonna sonora).

E lavora con perizia, infine, perfino sui caratteristi, sezionandoli con sguardo clinico ed estraendo il meglio dai suoi attori, quasi chirurgicamente. Dalla già citata Cavallin al sorprendente Maurizio Lombardi, dottore fuori di testa che fa tremare le gambe e i polsi più delle vasche da bagno disseccate e delle sale da pranzo viscontiane, disegnando sul suo volto multiforme da vecchio divo del muto i contorni di una follia demoniaca, grottesca eppure estremamente controllata.

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