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The Post – Il film (2018): la recensione di loland10

The Post – Il film (2018): la recensione di loland10

“The Post” (id., 2017) è il trentunesimo lungometraggio del regista di Cincinnati Steven Spielberg.
All’ennesimo film Spielberg si circonda e ci circonda di un suggestivo racconto con una coralità ed essenzialità riuscite con intriganti immagini di interni tra una redazione strapiena e un subbuglio politico di la da venire.
Una pellicola a soggetto, dove ogni particolare e oggetto, fiato e rumore, passo e decisione, scrivania e stampa, sono al loro posto per identificarsi. Una sottrazione elementare, una peculiarità essenziale che rende il tutto un mestiere per pochi. In sordina e in tono minore è il porsi ma i modi sono di un cinema in disuso e di una capacità attrattiva: pochi fotogrammi e giuste sollecitazioni. Il cinema è di livello inconfondibile quando sembriamo alla pari ma lo sguardo misurato va ben oltre ogni inquadratura.
La regia avvolgente e a fianco ad ogni volto, camminata e gruppo mostra il piglio migliore e mai domo di una cinepresa attaccata su ciascun personaggio. La carrellata iniziale in Vietnam (con la macchina da scrivere che aspetta nei tasti da battere) con i soldati che macinano passi sotto la pioggia battente aspettando il nemico, fa da ’trait d’union’ con quella nella redazione del Washington Post tra il corridoio che divide scrivanie piene e macchine che sentono le dite di ciascun giornalista. Come non pensare a film antecedenti mentre la camminata del redattore capo misura i passi dentro l’ufficio che sembra piccolo per farsi riprendere è quantomeno spazioso per far girare il quadro tra tutti i volti che man a mano suggellano gli intervalli di ogni ansia di pubblicazione. La cinepresa del regista sembra ballare, scivolare, spingere e favoleggiare sulle labbra di ogni giornalista con le parole pensanti che escono dalla bocca. Un parlare quasi asfittico, misero e secco mentre l’interno, e ciò che resta di esso, sbava per una prima pagina da rubare è un risucchio di titolo dal concorrente New York Times.
Ci vuole qualcosa di grosso per tirare su il giornale. E il qualcosa scotta. Telefonate fuori sede, ansia dei numeri, gettoni che cadono. Motel fuori zona, arrivo notturno, passi veloci, acqua sotto le scarpe, si bussa, il numero otto si apre e Ben Bagdikian incontra Robert McNamara. I documenti segreti sono tutti lì: consegnati in due scatoloni. Lo slegare la corda e l’apertura pare qualcosa di già visto nel cinema del regista. Miriadi di frasi, date e foglie senza impaginatura. Il top secret è vietato.
Alla fine i giornali concorrenti diventano uno spalla dell’altro. Quasi un segno del destino mentre il Presidente in modo perentorio fa sentire la sua voce. Mai e poi mai i giornalisti del Post saranno vicini alla Casa Bianca: una vera e propria epurazione . È l’inizio della fine per Nixon e da lì verrà lo scandalo Watergate.
Siamo nel 1971 quando il ‘Washington Post’ si trova tra le mani migliaia di documenti segreti che possono inficiare sulla Politica e nascondono l’occultamento di più presidenti sui finanziamenti e la guerra in Vietnam. Documenti liberi da pubblicare? Decisione non semplice per un giornale che vuole verità e darla ai governanti senza il passo è la mediazione del governo. Ci prova più di uno ma i documenti hanno il sì di Kay Graham (Meryl Streep) che da donna indecisa diventa il passo decisivo per il Post.
Avvocati inchinati, politici censurabili, voci corrotte e giornalismo veramente libero. Basta sentire la telefonata del vice di turno al Post, dopo la prima pagina che rivela i documenti nascosti, e vedere la postura di Ben Bradlee (Tom Hanks) mentre ascolta dalla cornetta e noi con lui. Naturalmente si vuole lo stop di tutto per non avere conseguenze. Risposta di compiacimento per la perdita di tempo (della Casa Bianca) e acidità incontrollabile nel ringraziare l’inutile blocco dall’alto della pubblicazione dei documenti. Che scrigno d’oro (si fa per dire) nelle corde vocali di un uomo che vorrebbe occultare ogni notizia per il Presidente.
E le riprese dall’esterno della finestra mentre si vede una sagoma indefinibile ma riconoscibile che parla al telefono è pura lezione di cinema. Pochi secondi, poche parole, pochi incisi mentre le copie del Post sono lì fuori ad attendere l’acquisto e la lettura: uno sberleffo e uno schiaffo vero al Governo che chiude. Libertà di stampo per chi è governato.
Rimani in carreggiata deragliando, rimani sul pezzo con acume libero facendoli deragliare.
L’ultimo Spielberg è conquista di spazi inermi, di strettoie, di chiaroscuri, di corridoi falcidiati e di un ascensore che ridesta lo sguardo stupito di un ragazzo tutto fare (mentre spia il titolo del giornale concorrente). Ecco le notizie sono lì sopra ma non vedi il dietro, la sagoma dietro le finestre e le voci quasi in controluce e con una cornetta alleggerita dei destini è il guasto marcio di una politica nascosta, esecrabile.
“Come mai sei qui alle otto…”. “Tu sai per chi lavori …”. Ecco la ragazza che serve lo Stato e porta materiale al Processo (Stampa e Politica si incontrano) vede la vittoria di suo fratello (ancora in Vietnam) da riportare in patria, mentre parla con Kay Graham all’entrata in aula. “Faccio il tifo per lei ma non lo dica a nessuno altrimenti mi licenziano”. Ecco che i governati, nonostante l’arroganza dei governi, hanno già il sentore di quello che accadrà. E’ una donna della redazione a ricevere la sentenza (sei a tre) con una telefonata. Non si vede nessun testimone, non si vede nessuna seduta: il telefono racconta dal giornale una vittoria delle pubblicazioni.
Ecco il film di Spielberg si basa molto su particolari che sembrano superflui ma che danno il la a notizie, spostamenti, riunioni, telefonate, diatribe, paure e sentenze. Quando la goduria della corsa tra una scrivania e una strada affollata riecheggia nei rumori di fondo di vecchie macchine da scrivere, si ha la sensazione di una palpitazione oramai persa e di un fuori onda senza racconto. Vecchio stampo, vecchio giornalismo e la carta dei giornali che arieggia cadendo in pacchi come un tonfo sull’asfalto vicino ad edicole e vendite in strada.
Per la pubblicazione dei documenti segreti, Spielberg ci dà il piatto tra Kay, Ben, incontri, telefonate, l’articolo in prima, la correzione, l’orario dopo mezzanotte, il sì del capo e la partenza delle rotative. Una sequenza di vero cinema e la scrivania che si muove (quando la stampa inizia), quella di Ben Bagdikian che sente il cuore della notizia come un’emozione vera (e noi con lui). I due Ben sembrano quasi identificarsi con gusto sulla macchina da scrivere e con le mani conserte come Kay Graham riesce a fare dopo una lunga notte. E dopo il sì per pubblicare dice: ‘Adesso vado a letto’.
Trump(ismo) non Trump(ismo), di questi tempi (e anche di ieri) meglio debordare e lasciarsi andare perché la politica del contenimento di notizie compromettenti e pericolose è confinata in uno scatolone che si apre come un miraggio o una Fata Morgana d’altri tempi. E i documenti di pagine e pagine sono tutti sparsi. Pavimento, tavolo e mani che sfogliano e occhi che leggono. “Siccome non sei un romanziere ma un giornalista”. Solo sette ore per un prima pagina. “Datti da fare”… ordina Ben Bradlee.
Ho da darti qualcosa di bollente E l’entrata in una notte di scambio; Proteste e ingiunzione processuale; Ostracismo presidenziale e una donna contro la(’) (auto)censura; Schiena diritta, è (s)comodo ogni silenzio riluttante, è viva ogni pagina rumorosa; ‘Tutti gli uomini del Presidente’ (film d’attacco da rivedere -1976 di Alan J. Pakula): ecco l’ultimo colpo per il proseguo omaggio nell’ultima inquadratura. E la musica incanta l’oscurità di un’indagine ancora palpabile. Per tale arrivano i titoli di coda. Uno scorrere di nomi come le rotative di un quotidiano da stampare (il cartaceo rimane tra le nostre mani come a tutta la redazione che legge in contemporanea il Post: clamore di un tempo gridato e di un presente da svegliare).
Nel classico film che disegna dei tempi architettonicamente poco invasivi, Spielberg si fa quasi da parte, segue le voci e i movimenti dei suoi personaggi, e libertà il sovrappiù per una pellicola lineare, armonica, intensa e priva del gioco come tale.
Il cast è di una coralità interpretativa efficace: ricordiamo tutti. Naturalmente i dialoghi fra Kay (Meryl Streep) e Ben (Tom Hanks) sono da assaporare. L’incontro colazione in una sala con luci soffuse, chiaroscuri e maestranze eleganti, arriva anche l’inciampo di una sedia che cade, lo sfogliare del giornale e un tavolo già pronto. Mosse, eleganze, mugugni, parole dimesse e spassosi movenze di un cinema trascorso. Il passo è breve per una telefonata: il mettere l’apparecchio richiesto è già una vista ‘d’antan’ . Ogni oggetto pare a proprio agio, ogni persona pare a posto ma, anche, tutto è in disordine e ogni volto è coperto da cera pronta a sciogliersi per un futuro più promettente. La miseria del destino di una vita è scritta dentro un quadro ben incorniciato. Tra gli altri rimane il volto di Bob OdenKirk (Ben Bagdikian) e la sua matita che cancella i nomi come le telefonate, Jesse Plemons (Roger Clark) e l’avvocato governativo, Zach Woods (Anthony Essaye) che corre e sbircia fino alla 43th, Tracy Letts (Fritz Beebe) che pare decisionista ma per le sue tasche. Tutti, e gli altri, hanno una misura di come si recita con convinzione ‘da prima pagina’.
La fotografia di Janusz Kaminski ammorbidisce, attutisce, inebria e allarga gli ambienti, tra un ufficio, le scrivanie, un salotto, un divano e una strada da attraversare. La colonna sonora di John Williams (oramai il suo connubio con il regista di Cincinnati è un accordo immagini note da pelle d’oca in più frangenti) segue l’itinerario come pochi sanno fare fino ad uno ‘schiaffo’ sonoro per arrivare alla postilla nota bene dell’ultimo fotogramma.
La regia di Spielberg ha il ‘presente’ di un riassunto metodico e sagace dei suoi trascorsi, letti e visti. Il paesaggio e l’immaginario cadono oltre le inquadrature. Messa in scena, giravolte, visi e arguzia d’impatto lasciano una storia di ‘domani’. ‘Non per i governanti ma per i governati’.
Voto: 10/10. (*****)
p.s.: tre loghi di distribuzione (O1, Rai, Leone Group) e quattro di produzione (DreamWorks, 20thFox, Partecipant media, Star Thrower).

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