The Reach – Caccia all’uomo: la recensione di loland10

“The Reach. Caccia all’uomo” (Beyond the Reach, 2014) è il secondo lungometraggio del regista francese Jean-Baptiste Leonetti.

Incastro di effetti, ora ben costruiti e ora facili, che si dileguano inguaribilmente nel deserto polveroso e silenzioso del Nevada, dove il film si specchia in due volti, pieni di rughe e lisci di raso, come un duello di lunga memoria dove il rituale è risaputo e ogni colpo da fuoco rallenta la corsa al pachiderma del potere con il boys dalle antenne diritte.

Tutto già detto e scritto, girato e rivoltato ma i due interpreti sembrano il prosieguo (in chiave thriller) di due reminiscenze di altrettanti film: M. Douglas è ancora lì, tra le grinfie di ‘Wall Street’ (1987) di Oliver Stone con il colletto bianco (e il coltello nel potere) ancora in caldo dentro un fucile scarica pallottole mentre J. Irvine è sull’onda del set ‘War Horse’ (2011) di Steven Spielberg con la fuga addosso e la natura accidentata che nasconde e protegge.

Ben e Madec, il tracker e l’uomo d’affari si incontrano per caso per una caccia (grossa) tra i mondi del deserto del Mojave fino ad uno scontro tra i loro mondi: lontani; un incubo costante pervade il giovane che da guida diventa preda mentre il ‘saccente’ esperto vuole divertirsi a suo modo con una corsa impari. Chi corre scalzo e chi insegue (goduriosamente) con un super-fuoristrada da cinquecentomila dollari (‘unico modello in America secondo Medec e la ‘Mercedes’ ride…dalla formula uno con pista o senza).

I trambusti vuoti, gli schiamazzi zittiti, i colori ammalianti e i panorami teatranti abbelliscono un film che insegue una sceneggiatura imprecisa e per certi versi incompleta fino ad un epilogo (fuori deserto) che lascia in esitazione di riuscita il tutto (e il libro di riferimento ’Deatwatch’, 1972, appare lontano negli anni). Perché adoperare il ‘cliché’ e andare oltre per una storia già piena di sé per ciò che la natura sa offrire? Tutti si adoperano a convincerci del futile che diventa utile. E ogni colpo nel sogno si realizza realmente per una vendetta (sperata) che è agonizzante di respiro e trasuda nella foga di riassettare il tutto.

Ben e Madec ci ‘divertono’ anche in un susseguirsi di ‘piccoli colpi’ e di ‘azioni in canna’ con un trend da ‘Duel’ (e quì il film di Spielberg compare in ‘sottotraccia’) senza però il piglio giusto da sfoderare e da rendere la storia ‘oniricamente’ la metastasi dell’uomo avido nella ‘corsa all’oro’. Il cellulare satellitare (‘qui non prende’ dice Ben) fa da apripista a qualsiasi bufera e a un muro impervio: ogni ostacolo sono una montagna di dollari, solo dollari dentro il caldo set di un ‘deserto’ da domare comunque.

La ‘borsa’ si aziona a distanza e il ‘docile’ (ma gli eventi fanno cambiare qualcosa) giovane si ingegna tra le poche cose che conosce ‘bene’ (molto bene) per una corsa senza ostacoli (‘corri, corri, Forrest… verrebbe da dire…) e con ‘tesori’ da cercare con intelligenza.

M. Douglas riempie lo schermo con un rugoso viso da ‘duro’ (il padre Kirk sta osservando, a debita distanza, la prova del figlio) appena ne osserviamo le forme con J. Irvine ha dalla sua una freschezza che rende credibile il personaggio.

Una migliore impostazione narrativa, una regia più attenta e un finale da ‘addomesticare’ avrebbero reso la pellicola nettamente più ‘resistente’ e ‘convincente’. Considerando (per chi scrive) le buone intenzioni di fondo un film che riesce a ‘sopravvivere’ e si può consigliare. La fotografia di Russell Carpenter è di grande efficacia.

Voto: 6+.

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