This Must Be The Place: la recensione di Camilla Di Spirito

Paolo Sorrentino è un esteta, un pittore di storie, un curioso. Insegue costantemente l’anima del personaggio cogliendola attraverso inquadrature ricercate, studiate. I suoi film sono percorsi visivi e al tempo stesso indagini psicologiche. Da “L’uomo in più” passando per “Il Divo” fino ad arrivare a “This must be the place”, i protagonisti sono sempre stati al centro dei suoi film con la loro storia, la loro personalità, che per il regista sono di gran lunga più importanti della trama, come da lui stesso dichiarato.
Cheyenne non è che l’ultimo ritratto di questa splendida galleria. Anima delicata e sensibile, il rocker-bambino (interpretato magistralmente da Sean Penn) attraversa la propria vita e lo schermo con passi incerti e sguardo malinconico, alla costante ricerca di un equilibrio in mezzo alla precarietà dell’esistenza. Le canzoni scelte da Sorrentino per la colonna sonora ne rispecchiano lo spirito (“I’m just an animal looking for a home, share the same place for a minute or two”; “Feet on the ground, head in the sky”; “I’m the passenger and I ride and I ride, I ride through the city’s backsides”). Tra incontri fugaci e candide riflessioni si svolge il duplice viaggio, fisico e introspettivo, di Cheyenne: verso l’America (alla cui conquista si sta muovendo lo stesso regista) e dentro il proprio passato. Ad accompagnarlo vi è il suo fedele trolley, custode metaforico delle sue insicurezze e dei nodi irrisolti della sua vita, che non a caso scompare al termine della sua avventura.
Sorrentino sarà anche il regista meno italiano di tutti, ma resta un grande vanto del nostro cinema.

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