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This Must Be the Place: la recensione di Giorgio Viaro

This Must Be the Place: la recensione di Giorgio Viaro

Storia di Cheyenne (Sean Penn), rocker cinquantenne che ha abbandonato le scene e passa le giornate in mutande nel suo castello irlandese, in compagnia della moglie (Frances McDormand, che sembra sempre dentro un film dei Coen). Nonostante questo non riesce a liberarsi del proprio personaggio, e tutte le mattine provvede ad acconciarsi i capelli e cerchiarsi gli occhi come un clone di Robert Smith, frontman dei Cure. A parte questo, ribalta tutti i più ovvi cliché della pop star: sposato da 35 anni con la stessa donna (che fa il pompiere!), è infantile, pacifico, fedele e rassegnato a girare per centri commerciali e supermercati se c’è da fare la spesa. Tutta questa normalità, però, fa rima con apatia: “Credo di essere depresso” dice alla moglie una sera, subito dopo averle fatto un “lavoretto” sotto le coperte; “Confondi depressione e noia”, gli risponde lei.

L’occasione della svolta arriva insieme a una telefonata: suo padre, a New York, sta morendo. Cheyenne attraversa l’oceano, e al capezzale scopre che il genitore aveva passato tutta la vita cercando di vendicarsi dell’umiliazione subita da un aguzzino ad Aushwitz. Di che umiliazione si tratti lo scopriremo poi, perché a questo punto Cheyenne decide di mettersi in viaggio su di un pick-up preso in prestito alla ricerca del vecchio tedesco, nascosto da qualche parte tra le montagne dello Utah.
Dopo l’incipit sonnacchioso in Irlanda, il film diventa così un road movie stracolmo di strade, motel, pub, incontri e naturalmente canzoni, per lo più ballate rock che spezzano il cuore. Tra queste anche la title track This must be the place (cercate il testo in rete e capirete la scelta) che, come spiega il protagonista a un bimbo che chiede di suonargliela, “non è un pezzo degli Arcade Fire” (è dei Talking Heads, quelli di David Byrne, che cura tutta la colonna sonora e compare in un prezioso cameo). E come nel più classico dei road movie, il senso del viaggio non è né nella partenza, né nell’arrivo (anche se il finale c’è, ed è forte) ma in quello che sta nel mezzo. Tra cui una cameriera dagli splendidi capelli rossi (ma niente sesso, “non posso, sono sposato”), l’uomo che ha inventato il trolley e una fulminante partita a ping pong.

Cinematograficamente ricchissimo, con un’anima stralunata (l’ispirazione felliniana è esplicita in dettagli come il pistacchio gigante o il sosia di Hitler trasportato sul rimorchio di un camioncino), This must be the place è un film stracolmo di tracce, come un album con troppe canzoni che faticano a stare assieme. Però molte di quelle tracce sono azzeccate, e all’interno di una cinematografia e di un immaginario smagriti come i nostri, i trenta milioni raccolti per il film – Sean Penn, l’America e David Byrne compresi – sembrano proprio ben spesi.

Leggi la trama e guarda il trailer del film

Mi piace: l’idea di un cinema ricco, in cui ogni sequenza si svela pieni di dettagli di scrittura e regia

Non mi piace: la storia è costruita per episodi, non tutti coerenti o efficaci, e i temi toccati sono troppi

Consigliato a chi: a chi ama l’ironia malinconica e surreale di Sorrentino

Voto: 3/5

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