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This Must Be The Place: la recensione di keivan21

This Must Be The Place: la recensione di keivan21

L’inadeguatezza contemporanea di una rockstar

Paolo Sorrentino sbarca in America con un progetto ambizioso, postmoderno, simbolista ed etereo; in pratica la solita stramba ed affascinante poetica dell’autore napoletano, ma allargata su orizzonti nuovi, internazionali e vigorosi. Il protagonista del suo valido intreccio è lo straordinario Sean Penn, che promise a Sorrentino di lavorare con lui al più presto già durante il Festival di Venezia del 2008, quando l’attore era presidente di giuria ed il regista presentava al lido il suo biopic sulla figura di Giulio Andreotti, Il divo.
Qui Penn interpreta Cheyenne, una rockstar ormai in declino, ricchissimo, dal look tuttora estroso e fuori moda, vive un’esistenza fin troppo pacata, al limite tra la depressione e la noia, in una serie di atteggiamenti bizzarri e cadenzati. La notizia della morte dell’anziano padre lo costringerà ad un viaggio molto particolare nel bel mezzo degli Stati Uniti, alla ricerca successivamente di un ex-nazista che era stato carceriere proprio di suo padre ad Auschwitz.
Sorrentino non si smentisce, apporta senza troppi patemi d’animo la sua maestria registica e quel suo modo lento ma sofisticato e crudo di mostrare le inesattezze del mondo circostante, di creare un sottobosco di esperienze umane che si distaccano dalla realtà (o falsità) della vita più comune possibile. Cheyenne è il portavoce innanzitutto di una generazione che non c’è più o che fatica a riemergere, un popolo che negli anni Ottanta ha avuto successo a palate, fatto uso smodato di droghe, passato insomma una vita spericolata senza limiti, ma che ora non riesce a trovare il bandolo della matassa e ad uscire dalla noia decadente dei giorni nostri.
Il viaggio del protagonista nelle zone più oscure dell’America rappresenta un chiaro omaggio al cinema on the road, tanto caro ad un altro grande autore italiano come Michelangelo Antonioni, che in Zabriskie point risaliva le radici del genre umane con attraverso una traversata nella mitica Death valley costruendo un film-simbolo al genere “stradale” tipicamente a stelle e strisce. Ma il viaggio di Cheyenne non sarà una ricostruzione di sé stesso, bensì un excursus nella penombra, nei territori fisici e mentali che simbolicamente vengono mostrati nelle fattezze di personaggi fuori dal comune, tatuatori dall’animo gentile, anziani ebrei cacciatori di nazisti, bambini di taglia forte attratti dalla musica rock. L’ironia sottile, mirata del personaggio di Sean Penn e delle situazioni in cui capita sono da manuale, così intelligenti, così veraci, stemperano il clima nervoso generato dalle inquadrature strettissime, da quei carrelli interrogativi che non si limitano ad esplorare il territorio o le persone circostanti, bensì rappresentano un’analisi di grande impatto sulle zone d’ombra degli uomini, sulle loro massicce difficoltà, sulle insicurezze e sui segni del tempo presenti sui corpi. La mano dell’autore si riconosce in alcuni elementi predominanti; il silenzio e la timidezza di Cheyenne, uomo così introverso da sembrare ostile, ricordano i modi di Titta Di Girolamo, protagonista de Le conseguenze dell’amore strordinariamente interpretato da Toni Servillo. Mentre l’indagine sulla fisicità paradossale e grottesca di quei luoghi così ambigui e lontani dalla mentalità più comune ricordano le atmosfere surreali e simboliche de L’amico di famiglia.
Infine il gusto musicale di Sorrentino, legato al sound di qualche decennio fa, si affida al sempreverde David Byrne, leader dei Talking Heads, per la colonna sonora, trovando quel mitico equilibrio paradossale tra musica ed immagini.
This must be the place non lascia messaggi o morali di fondo ben precise, rappresenta invece, come spesso nella filmografia sorrentiniana, una testimonianza agli spettatori di cosa può essere la vita e la pura realtà delle cose, a quali conseguenze può portare la noia e qual’è il prezzo della vendetta, interiore ed esteriore. E’ un’opera piena di significati tangibili e metaforici, pregna di un umorismo piccato e formalmente giusto, si intravede quel lirismo ideologico dell’autore che si lega alla grandezza interpretativa di Sean Penn, capace di inventarsi la camminata da “colui che si vergogna della propria ricchezza”, disegnando una perla rara per i nostri tempi, ovvero un uomo che ha avuto molto, moltissimo dalla vita ma che non ha la minima idea di come godersi tutti i suoi averi e la sua beatitudine esistenziale, dovendo articolarsi per trovare un significato alla propria vita. Sarà l’estro di Sorrentino a spedirlo nel mondo in un modo come sempre anticonvenzionale.

KEIVAN KARIMI

VOTO: 4 STELLE

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