Total Recall – Atto di Forza: la recensione di Antonio Montefalcone

Altro remake superfluo! Altro rimpianto del film originale! Nella rete di riadattamenti di film di successo del passato, stavolta è finito “Atto di forza” (Total Recall, ’90) di Verhoeven, tratto dal racconto “Ricordi in vendita” di Dick. Si sperava in un remake interessante. E invece il cinema ha ceduto all’intrattenimento spettacolare, godibile, ma scontato e privo di ambizioni. Ciò che colpisce di questo film è il cambiamento, non tanto di alcuni basilari luoghi, personaggi e dettagli rispetto all’originale, quanto piuttosto dell’approccio narrativo: non più da fantascienza ricca di sotto testi, ma da action-movie fracassoso povero di ironia, e soprattutto di fascino. La pellicola non diverte, non avvince molto, non emoziona e non fa riflettere. Si avverte fortemente la mancanza di mistero, tensione e paranoia delle opere Dickiane; lo spessore dei personaggi (indimenticabili gli inquietanti e sofferenti mutanti del prototipo); l’atmosfera esotica e malata di Marte; l’angosciante senso di disumanità e invivibilità che si respira nel racconto. Al loro posto solo un noioso sovraccarico di inseguimenti alla “Minority Report” e adrenaliniche sequenze (belli, comunque, l’inseguimento mozzafiato su auto volanti, la fuga tra gli ascensori sospesi nel vuoto e lo scontro a gravità zero). Certo non si ripretendeva una messa in scena coinvolgente o la cifra stilistica del film del ’90 (onirica, cruda e sanguinolente) descrittiva del conturbante cinema di Verhoeven (“del corpo” e della forza muscolare, erotico e molto violento); ma almeno una nuova iconografia stilistica, discostata dal solito apparato figurativo, questo si! Certo la forma è impeccabile: validi effetti speciali visivi; convincenti invenzioni (l’ascensore ad inversione di gravità, il tunnel che fora la crosta terrestre, le scenografie alla “Blade Runner”); però, diversamente dall’originale, tutto questo non riesce a dotarsi di vera forza evocativa e suggestiva. La realtà è che il film è poco innovativo nella sostanza e Wiseman non ha il talento visivo di Verhoeven. Persino gli attori sono poco incisivi, e la sceneggiatura, schematica e superficiale. Questa poteva valorizzare varie chiavi di elaborazione tematica: quella filosofica (il labile confine tra il reale e il virtuale, l’ambiguità di sogno e realtà, i dilemmi morali derivanti dalla manomissione tecnologica della mente umana) e psicologica (l’illusione del proprio Io, il mistero dell’identità dell’uomo, i suoi legami con la memoria e la personalità) presenti tra l’altro nel racconto di Dick; ma anche quella socio-politico (limiti e inganni del controllo, il dominio e lo sfruttamento di uomini e risorse) abbozzata nella prima parte del film. C’era molto materiale su cui trattare e dispiace che alla fine lo si sia dimenticato. Sfortunatamente, così facendo, si è reso l’opera generica e impersonale, indefinita e inconsistente (come la non-identità del protagonista) priva di una propria e originale chiave narrativa e di una forza stilistica, e che in modo identico al trattamento operato sul protagonista quando gli viene cancellata memoria e identità (lasciandolo senza conoscenza del passato e del proprio Io) non concede allo spettatore che non ha visto il film del ’90 o letto il racconto di Dick, di ben sapere ciò che essi erano e raccontavano effettivamente, di aver modo di riflettere sul loro potenziale espressivo e concettuale, di lasciarsi stravolgere dalle emozioni che trasmettevano con efficacia stilistica e intensità narrativa. Peccato, avremmo potuto arricchire di più la nostra mente. O i nostri ricordi…

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