Un altro giro: la recensione del film di Thomas Vinterberg

Quattro professori di liceo diventano insegnanti migliori alzando costantemente il proprio tasso alcolemico. Dal regista di Festen e Il sospetto, con un grande Mads Mikkelsen, una affascinante commedia drammatica

Un altro giro
PANORAMICA
Regia (4)
Interpretazioni (4)
Sceneggiatura (3.5)
Montaggio (3)
Fotografia (3.5)
Colonna sonora (3.5)

Dopo un paio di film di genere “fuori traccia” come Kursk e Via dalla pazza folla, Thomas Vinterberg (Festen, Il sospetto) torna a dedicarsi alla sociografia della borghesia danese, solleticandone gli istinti depositati sotto il comune senso del decoro.

Un altro giro racconta l’esperimento di quattro professori di liceo, convinti della bontà di una teoria para-scientifica secondo la quale l’essere umano vive con un deficit naturale di alcol nel sangue: solo alzando il tasso alcolemico del 5 per mille saremmo in grado di esprimere a pieno le nostre potenzialità. All’inizio tutto fila per il meglio, poi i quattro superano il limite autoimposto creando lo scompiglio a scuola e in famiglia, con conseguenze via via più drammatiche.

Vinterberg, che torna a lavorare con Mikkelsen otto anni dopo Il sospetto, in cui era sempre l’ambiente scolastico il teatro dello sbriciolamento dei rapporti fiduciari, è di nuovo abile a isolare un’abitudine sociale e usarla come innesco della psiche dei protagonisti. Come mostra il prologo (e lo splendido epilogo danzante, che vale tutto il film), l’abuso di alcol è in Danimarca una questione di tradizione, ovvero un costrutto sociale che viene tramandato nella sfera privata, salvo poi essere condannato in quella pubblica. La scuola in particolare è l’epicentro di questa doppia morale e dell’atteggiamento schizofrenico di un’intera comunità: per esempio vediamo la preside che mette sotto torchio insegnanti e studenti, mentre uno dei professori invita un alunno a bersi un goccio per superare l’ansia di un esame.

Il movimento del film in questo senso si sviluppa in modo prevedibile, e d’altra parte non sono mai stati i colpi di scena la forza degli script di Vinterberg. Piuttosto, nel testare il punto di rottura dei suoi personaggi, l’autore danese conferma di essere molto bravo nel costruire un cinema dell’assedio psicologico dai meccanismi thriller. Inoltre si tira fuori dalla questione pedagogica, guardandosi bene dal prendere una posizione netta sul tema ed evitando ogni eccesso moralista – anche questa una caratteristica ricorrente del suo cinema, in cui la tensione dialettica non si risolve mai in un dogma.

Il film, dopo aver ricevuto l’etichetta di selezionato a Cannes 2020, dove Vinterberg è un “regolare”, sta girando con successo i Festival europei e ha appena vinto a Londra. Lo merita per messa in scena, direzione degli attori e per quegli ultimi eccezionali minuti.

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