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Un ragazzo d’oro: la recensione di Marita Toniolo

Un ragazzo d’oro: la recensione di Marita Toniolo

Quella del rapporto padre/figlio è un’ossessione del cinema di Pupi Avati, rimasto orfano da bambino. E non è certo una coincidenza che il soggetto di Un ragazzo d’oro lo abbia scritto in coppia col figlio Tommaso, in un gioco di riflessi psicologici di cui il film è costellato. Nostalgia ed Edipo: una combinazione perfetta di ingredienti tanto cari all’emiliano maestro di regia.

Addentriamoci nella storia: Davide Bias (Riccardo Scamarcio) è un aspirante scrittore a cui vengono continuamente sbattute in faccia le porte  delle case editrici. Reca con sé la pesante eredità di una relazione terribile con un padre di cui è stato vittima psicologica, costantemente sminuito,  al punto da doversi allontanare dalla famiglia, da Roma a Milano. Il papà, Achille, era uno sceneggiatore di B Movie degli anni ’70 e ’80, epoca d’oro di quelle commedie pecorecce sdoganate un decennio fa sotto l’etichetta di stracult, di cui è comunque difficile non vergognarsi. Specie se quel ciarpame l’ha prodotto tuo padre. Davide è talmente condizionato dall’odio per la figura paterna, da non riuscire a trattenersi dal parlarne male persino al funerale del genitore, dopo che questi ha avuto un terribile incidente. Il perito dell’assicurazione sospetta fortemente si tratti di suicidio, mentre la moglie (Giovanna Ralli) che il vero movente dell’uscita di scena non sia stato il fallimento della carriera quanto l’ossessione amorosa non corrisposta per una fascinosa editrice (Sharon Stone). Dalla sua, quest’ultima vorrebbe recuperare un mémoire misterioso del vecchio Bias.

Davide ha una fidanzata che è la ex del suo boss (Cristiana Capotondi), a capo dell’agenzia pubblicitaria per cui lavora, e fa fatica a trovare una stabilità psicologica nella vita di tutti i giorni, soprattutto quando deve affrontare il tema socialità. È evidente dal primo colloquio, a cui si reca cedendo al tic compulsivo di contare i passi, che fa fatica a controllare le emozioni. Si intuisce un passato di precarietà psicologica tenuto ancora a bada con pastiglie e sedute psicanalitiche. Dopo essere stato licenziato, torna nella casa paterna in compagnia della madre, perennemente ansiosa, e “riporta in vita” il padre. Dapprima con i vestiti e l’acqua di colonia, poi decidendo di ritrovare a tutti i costi il suo romanzo perduto, infine lasciandosi ammaliare dalla bionda editrice. Per ultimo, decidendo di creare lui stesso il capolavoro che riabiliterà il padre, le cui sceneggiature sono state continuamente manipolate da falsi amici registi senza scrupoli (vedi la scena dell’anteprima).

Nobilissimo come intento quello della riabilitazione paterna, risulta straniante per lo spettatore, che ha immagazinato da subito l’assunto per cui l’odio di Davide per il padre è irrevocabile e senza possibilità di marcia indietro. Che basti una vecchia sceneggiatura del padre 25enne per riabilitarlo agli occhi del figlio e a convincerlo a donare tutto se stesso e la propria vita (smetterà di prendere i farmaci che lo tengono sotto controllo) per riscattare Bias Senior agli occhi del mondo, è uno di quegli errori difficilmente perdonabili a una vecchia volpe come Avati.

Il film è stato costruito nelle intenzioni del suo creatore come un meccanismo a molla che dovrebbe scattare a partire dalle sue premesse e invece soffre di un’inerzia che non permette allo spettatore di partecipare. L’emozione è congelata: una staticità di cui soffrono anche gli attori, non per incapacità presonali, ma perché trattenuti dall’architettura troppo a tesi del film, dal suo procedere appesantito da un teorema: brillante nell’ipotesi, ma fallace nella dimostrazione.

In sostanza, il film parla di padri troppo rapiti da se stessi per riuscire a dare radici forti ai figli e di figli talmente innamorati dei propri genitori da proiettare all’esterno un’immagine irreale e trasmutata della propria infanzia. Parla anche, a chiosa del tutto, dell’equivalenza tra creatività e follia e della superiorità dell’urgenza artistica rispetto al quieto vivere. Infine, dà una stoccata alla vacuità dello showbiz di cui fa parte, che macina come un tritasassi le sue vittime.

Leggi la trama e guarda il film

Mi piace: l’idea di un rapporto padre/figlio apparantemente compromesso irriducibilmente e ritrovato dopo la morte del genitore.
Non mi piace: l’architettura troppo a tesi del fim.
Consigliato a chi: ama il cinema nostalgico e sentimentale del regista emiliano

VOTO: 2/5

 

 

 

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