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Under the Skin: la recensione di Mauro Lanari

Nel 1992 Gray pubblicò il bestseller “Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere”, il libro di terapia coniugale e di coppia più venduto nella storia (oltre 50 milioni di copie). Glazer ne riprende l’assunto, in gran parte vero, della guerra dei sessi alieni l’uno all’altro, e non lo fa in stile black comedy alla Danny DeVito (1989), bensì inscenando la metafora alla lettera come una “Guerra dei mondi” fantascientifica. La forma espressiva da lui adottata è quella a noi già nota per la sua attività da filmaker dei videoclip di Radiohead, UNKLE, Massive Attack: suggestioni impressionistiche ed evocative al posto di narrazione fluida e lineare, tempi rarefatti, approccio fra il cerbrale e il cervellotico. In “Under the Skin” la Johansson più si spoglia e più è inguardabile, però ha il pregio di Schwarzy nella saga di “Terminator”: qui la sua inespressività è funzionale al ruolo. E il lungometraggio, come riporta Rotten Tomatoes, è “un’inquietante esperienza visiva [e sonora]”, ipnotico per chi non cede all’ipnoinduzione. L’atmosfera allucinata, un po’ primo Lynch e un po’ primo Cronenberg, con cui Glazer materializza il proprio simbolismo è indimenticabile: la mantide religiosa che cattura le prede sprofondandole e segregandole nel liquame della seduzione carnale, il loro svuotamento organico con la pelle che alla fine implode, la vulnerabilità di lei all’emozioni umane, la sua prima stilla di sangue causata dalle spine d’una rosa donatale, la pietas per un giovane affetto da neurofibromatosi sino all’inevitabile ribaltamento dei rapporti di forza tra vittima e carnefice, e la purezza della neve che diventa utopia. Misantropo, misogino e misandrico quanto l’ultima opera di Vinterberg “Il sospetto” (2012), ideologicamente un po’ superficiale, filmicamente a sprazzi fascinoso.

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