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Venere in pelliccia: la recensione di Giorgio Viaro

Con Venere in pelliccia, Roman Polanski prosegue, dopo Carnage, sulla strada del teatro filmato, rendendo il gioco di specchi ancora più esplicito e ricco. Siamo, appunto, in un teatro, dove Thomas (Mathieu Amalric) – sceneggiatore e regista di una pièce basata sul romanzo di Sacher-Masoch che dà anche titolo al film (e da cui prende origine il termine “masochismo”) – sta cercando la sua protagonista femminile. I provini sono finiti, e fuori viene giù il diluvio, quando si presenta – arruffata e mezza nuda, tutta inguainata di pelle – un’ultima candidata, Vanda (Emmanuelle Seigner, nella vita moglie di Polanski…). Thomas vorrebbe tornarsene a casa, ma in Vanda ci sono cose che lo sorprendono e inchiodano in platea: si chiama come la protagonista del testo, possiede per qualche ragione l’intero copione e conosce già tutte le battute a memoria. Volgare e grossolana all’apparenza, appena si mette a recitare si trasforma nell’interprete perfetta, e dalla sua borsa senza fondo escono di continuo costumi splendidi e pertinenti (come una giacca viennese del 1847, comprata «per 40 euro in una bancarella»…). Un dialogo alla volta, improvvisazione dopo improvvisazione, l’intera pièce, un duetto di sottomissione psico-fisica reciproca, prende forma, mentre vita e testo sfumano l’una nell’altro.

Guerra dell’intelletto, guerra dei sessi, stravinta dalla donna – che indossa un collare, ma tiene sempre l’uomo al guinzaglio – il dramma di Polanski è drasticamente femminista, come se lui fosse sempre in debito d’espiazione per il suo passato complicato e doloroso, e cercasse rifugio nei film. La venere in pelliccia inizia con toni “quasi-magici”, e finisce pienamente surreale, facendo pensare che tutto possa essere un sogno di Thomas: la donna che lo trasforma prima in un paziente da psicanalizzare e poi in un burattino è infatti uno stereotipo, quello che lui stesso descrive al telefono prima di incontrare Vanda, pensando di non essere sentito. Uno stereotipo che si sfila pian piano dal suo controllo – intellettuale, sessuale, professionale – e finisce per metterlo sotto i tacchi. Diretto da Polanski con la consueta maestria e capacità di trasformare la realtà in delirio senza soluzione di continuità, il film ha tutti i limiti e i pregi del divertimento intellettuale, autoreferenziale e politicamente corretto.

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Mi piace
Il talento sconfinato di Polanski, e la sua voglia di continuare a osare sulla strada del teatro filmato. Emmanuelle Seigner è interprete eccezionale.

Non mi piace
Per quanto affascinante, si tratta pur sempre di un divertissement, un’opera autoreferenziale e a tratti un po’ vuota.

Consigliato a chi
A chi vuole seguire Polanski lungo la strada dell’esplorazione del “teatro al cinema”.

Voto: 3/5

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