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Cinema ad effetto: Il pianeta delle scimmie trasloca nel terzo millennio

Il prequel del cult fantascientifico del '68 porta la performance capture (con Andy Serkis) a un nuovo traguardo: eliminare le barriere tra effetti visivi e live action

Cinema ad effetto: Il pianeta delle scimmie trasloca nel terzo millennio

Il prequel del cult fantascientifico del '68 porta la performance capture (con Andy Serkis) a un nuovo traguardo: eliminare le barriere tra effetti visivi e live action

Dopo una lunga pausa (l’ultima occasione ci è stata offerta da Inception di Chistopher Nolan) eccoci di nuovo a parlare di prodezze cinamatografiche di natura tecnologica nel nostro speciale dedicato agli FX Cinema ad effetto. Con 46 puntate abbiamo ripercorso la storia degli effetti speciali dai tempi di Méliès ai giorni nostri scandendo le tappe fondamentali che hanno segnato l’evoluzione di quest’arte.

A spostare ancora un po’ più in là il traguardo raggiunto da questa inesorabile avanzata ora ci pensa il film fantascientifico L’alba del pianeta delle scimmie, prequel-reboot firmato Rupert Wyatt del mitico film del 1968 Il pianeta delle scimmie con Charlton Heston. La pellicola svela in poche parole come ebbe inizio tutto quello che abbiamo visto nel film del ’68 che raccontava di un mondo ormai dominato dai primati.

La trama

James Franco è un medico e studioso in cerca di una cura per l’Alzheimer che sperimentando alcuni farmaci sulle sue scimmie, ne scopre non solo gli effetti terapeutici, ma anche la capacità di modificare la struttura del cervello degli animali. Il trattamento viene testato su Caesar che, sviluppata una forma di intelligenza umana, fugge dal laboratorio, distribuisce la nuova medicina ai suoi simili e dà inizio alla rivoluzione.

L’evoluzione della performance capture

Per traslocare nel terzo millennio e raccogliere la pesantissima eredità lasciata da un cult della fantascienza come Il pianeta dell scimmie il regista Rupert Wyatt sapeva che sarebbe stato necessario fare qualcosa di davvero “spettacolare” e al passo coi tempi. La sfida da vincere era ottenere degli scimpanzè che sapessero trasmettere emozioni in modo credibile. «Non avremmo mai potuto fare realisticamente ciò che Rick Baker o i precedenti make-up artist hanno fatto in altri film delle scimmie, cioè  travestire e truccare gli attori da scimmie», spiega Wyatt, «Non avrebbe mai potuto funzionare».

Per rappresentare in modo nuovo e attuale queste scimmie trasformatesi in esseri pensanti il regista aveva due possibilità, com’è lui stesso a precisare: «Utilizzare scimmie vere, una possibilità che era scartata per diversi motivi: non ultimo il fatto che non ci sembrava di poter ottenere tutto quello che desideravamo e di far recitare le scimmie nel modo che precisamente volevamo. L’altra opzione era utilizzare la tecnica della Computer Generated Imagery o CGI».

WETA DIGITAL

Per ottenere risultati degni delle aspettative Wyatt e la produzione si sono rivolti ai migliori del campo: gli esperti della neozelandese WETA DIGITAL, divisione dellla mitica Weta Workshop del regista Peter Jackson, ovvero la compagnia specializzata in effetti speciali digitali, cui si deve il merito della creazione di personaggi come il Gollum de Il signore degli anelli e il gorilla del King Kong di Jackson. «Quando hai l’opportunità di lavorare con la Weta e con quello che riesce ad ottenere con la tecnologia del motion capture lo fai senza neanche pensarci», spiega Wyatt. «Siamo all’alba di un’epoca nuova in questo campo e stiamo usando questa tecnica per raccontare un’intera storia sull’alba di una nuova civiltà, il che è davvero eccitante».

È Joe Letteri della Weta (quattro premi Oscar per la trilogia de  Il signore degli anelli e Avatar di James Cameron) a spiegare perchè L’alba del pianeta delle scimmie fosse una sfida “troppo eccitante da poter rifiutare”: «Per Avatar, James Cameron ha creato un mondo completo di fantasia che nessuno aveva mai sperimentato prima. La sfida con L’alba del pianeta delle scimmie era molto diversa, e per certi versi, ancora più difficile. Abbiamo applicato alcune delle tecnologie che abbiamo sviluppato per Avatar per creare un mondo vero e proprio nel quale si può riconoscere  la San Francisco di oggi. Ogni elemento – le scimmie, le ambientazioni – doveva sembrare realistico perché ci si muove dentro una storia basata sulla realtà e non pura fantascienza».

ANDY SERKIS E I PROGRESSI DELLA PERFORMANCE CAPTURE

Il suo nome ormai “fa rima” con performance capture. Sono passati dieci anni da quando Andy Serkis (foto sopra) “vestì i panni” del mostriciattolo Gollum per la trilogia di Peter Jackson, diventando il più celebre attore imbrigliato dai sensori della performance capture. L’esperimento fu così fortunato che Serkis qualche anno dopo fu chiamato a ripetersi dando vita al gorilla King Kong per il remake di Jackson. Per questo motivo non ci sono stati dubbi quando la produzione si è trovata a dover reclutare la persona giusta per realizzare lo scimpanzé Cesare.

I progressi raggiunti dalla perfomance capture dai tempi di Gollum sono stati evidenti, come ha spiegato Joe Letteri: «Come con Avatar, abbiamo utilizzato vestito e copricapo per catturare le espressioni facciali degli attori e ottenere l’intera gamma delle loro interpretazioni. Ma qui, per la prima volta, abbiamo usato la tecnica come una parte integrata della performance live action e, quindi, eliminato le barriere tra effetti visivi e live action».

A fare chiarezza sull’argomento è lo stesso Andy Sekis, in una video intervista che potete vedere qui sotto e in cui precisa: «La tecnologia della performance capture è semplicemente un altro strumento per riprendere gli attori, non migliora, nè modifica la performance dell’attore. E’ uno strumento trasparente, si tratta solo di altre telecamere. Quello che è stato fatto in questo film, per esempio, è stato riprendere James Franco e poi riprendere la mia interpretazione con le telecamere della performance capture. Tutto è stato poi montato insieme: è stato questo il grande passo avanti».

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