DiCaprio, il diavolo a Wall Street

Fiumi di dollari,sesso, droga e pump&dump. Leo torna davanti alla macchina da presa di Martin Scorsese per portare sullo schermo la vita (vera) della rockstar della finanza Jordan Belfort

Potremmo iniziare dal numero 5, perché tante sono le collaborazioni tra Leonardo DiCaprio e Martin Scorsese, di cui The Wolf of Wall Street è solo l’ultima in ordine di tempo (prima ci sono state Gangs of New York, The Aviator, The Departed e Shutter Island). Si potrebbe anche partire da Il lupo di Wall Street, il libro che ha ispirato il regista e il suo pupillo, nonché una delle due autobiografie a cui Jordan Belfort ha affidato la sua verità (l’altra si intitola Catching the Wolf of Wall Street).

Volendo fare i cinefili, ci starebbe bene una citazione che ha fatto storia: «L’avidità è giusta», assioma su cui Gordon Gekko (ricordate lo spregiudicato finanziere protagonista di Wall Street?) ha posto le fondamenta del suo successo e si è erto a icona dello yuppismo anni Ottanta e, più in generale, dell’irresistibile e intramontabile capacità di seduzione del denaro.
Altra opzione possibile potrebbero essere le note di “Baby, You’re a Rich Man” cantate dai Beatles nel lontano 1967 e riprese nei titoli di coda di The Social Network, biopic firmato Aaron Sorkin-David Fincher su Mr. Facebook Mark Zuckerberg.

E invece noi iniziamo da tutt’altro tipo di musica. Quella con cui per almeno un decennio la rockstar degli agenti di borsa Jordan Belfort ha fatto tremare le stanze del potere e il cuore della finanza mondiale. Parafrasando Scorsese, «Gekko è un prestanome e l’emblema dell’uomo d’affari, Zuckerberg un ragazzo determinato e con un piano; Belfort è qualcosa di diverso», appunto. Un Re Mida dei nostri giorni, geniale e maledetto, tossicodipendente e viveur. Chi si aspetta la classe e lo sguardo mefistofelico di Michael Douglas in Wall Street farà bene a ricredersi. Qui siamo davanti a un altro seguace del «di più non è mai abbastanza», ma ancora più folle, spudorato e volgare, sempre scortato da dollari e puttane. Un’altra vittima della propria ambizione, che non si è fermato davanti a nessun eccesso e dopo aver toccato con mano il paradiso, ha perso il controllo ed è precipitato all’inferno.

Quanto è accaduto negli anni ’90 alla potentissima Stratton Oakmont, ribattezzata la Disneyland dei broker e protagonista di una truffa che è costata agli investitori una perdita pari a 200 milioni di dollari, è cosa pubblica. Il suo fondatore non l’ha voluto tenere nascosto a nessuno, né a noi né all’FBI – con cui ha deciso di collaborare dopo essere stato condannato per frode e riciclaggio e aver scontato 22 mesi di carcere; ancora gli restano da pagare 110 milioni di dollari – né tanto meno a Leo, che lavora al biopic almeno da cinque anni.

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