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Sicilian Ghost Story

Sicilian Ghost Story

Se autorialità significa una posizione da cui guardare le cose, quindi un’idea di cinema che possa essere anche un’idea di mondo, Fabio Grassadonia e Antonio Piazza sono tra i pochi esponenti dell’indie italiano a poter serenamente aspirare allo status. A Cannes 70 hanno inaugurato la Semaine de la Critique, che avevano già vinto nel 2013 con Salvo.

La loro versione del realismo magico è un territorio di tenebre e malaffare in cui si radica una strana forma di bellezza, un’intuizione che lega due personaggi e li estrae letteralmente dalla scena, come un nocciolo duro di speranza dentro un contesto irreparabilmente compromesso. Il risultato è talmente bizzarro, la nota lirica così dominante su quella mafiosa, che è difficile definire un genere, il che ci porta appunto nel territorio dell’autorialità pura.

Sicilian Ghost Story racconta il rapimento e la prigionia di un ragazzino, e l’avventura investigativa che una coetanea innamorata di lui mette in piedi per ritrovarlo. C’è una provincia rurale, boscosa, dove spariscono gli innocenti, governata dagli uomini ma sorvegliata da bestie consapevoli, estranea al presente e rassegnata alla violenza.

Luna, la bambina, costruisce una piccola ricerca privata, un inseguimento che è prima di tutto un’esplorazione di sé – il film è un coming-of-age, una presa di posizione dentro un mondo fatto di omertà e bugie da quattro soldi. Gli adulti sembrano presi da una striscia dei Peanuts, nel senso che compaiono poco o nulla (spesso solo le scarpe), non lasciano identità dentro il racconto, sono squarci di violenza o menefreghismo. Sono già diventati contesto, non producono nessuna differenza.
La differenza sono i ragazzi, che anche se non risolvono niente provano almeno ad assumere una posizione critica, quindi una forma di libertà.

Nel film c’è tutto questo, e una grande sensibilità formale: le riprese aeree, gli stacchi di montaggio, l’uso delle luci e della musica, sono furbi e adeguati, cercano l’effetto drammatico e la sintesi simbolica senza l’obbligo del rigore, della povertà realista.
Tutto bene? No, non tutto. Un film è anche i suoi attori, e questi ragazzini non hanno letteralmente idea di cosa significhi recitare, ripetono i dialoghi come una filastrocca che non hanno capito.

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