The Program: la recensione di Andrea Facchin

La bugia che ha incantato il mondo. La storia di Lance Armstrong possiamo definirla così, perché fino a quando il campione di sette Tour De France non è stato smascherato dallo scandalo doping, il suo nome è stato la cosa più vicina al concetto di supereroe tanto caro al cinema mainstream. La vicenda è nota: da ciclista modesto, Armstrong ha contratto un cancro ai testicoli al terzo stadio che l’ha quasi ucciso. Ma ne è uscito, è tornato in sella alla sua bici e cominciato la scalata che l’ha reso l’emblema non solo della sua disciplina, ma dello sport in generale e della vita stessa. E tutto questo lo ha fatto ingannando il globo.

Stephen Frears, il regista di The Queen, si addentra nei meccanismi di questo grande bluff in The Program, un biopic dalla forte impronta documentaristica. È il primo dettaglio che si nota, poiché la sceneggiatura procede per tappe, dal 1993 – quando Armstrong fatica a emergere – al 2012, anno della fragorosa caduta dell’eroe. In mezzo, l’intenso mix tra materiale di repertorio – la cui fonte principale è il documentario The Armstorng Lie di Alex Gibney – e materiale filmico, con la telecamera di Frears che segue le ruote delle bici di Armstrong e compagni muovendosi frenetica, con zoom improvvisi e uno stile simile a quello della camera a mano.
Tecnicismi a parte, The Program vuole spiegare come l’ex campione texano e il suo team abbiano eluso i controlli antidoping per anni attraverso trasfusioni, siringhe e sangue riciclato. E Armstrong, interpretato da Ben Foster, ne esce come un essere umano spregevole e manipolatore (dei media, di colleghi e rivali, della sua stessa federazione), megalomane sino all’esasperazione, senza nessun beneficio del dubbio: tutto intorno a lui è costruito ad arte e perde credibilità persino la campagna di sensibilizzazione alla lotta contro il cancro, male che il ciclista ha saputo sconfiggere e usare per i propri interessi (almeno è questo il messaggio che passa).

Il problema principale del lavoro di Frears, però, è che ha le caratteristiche di un ennesimo atto d’accusa contro Armstrong e il dottor Michele Ferrari (i cui avvocati hanno minacciato di sequestrare il film), reo di avergli somministrato le sostanze dopanti che, sebbene con colpevole ritardo, l’hanno inchiodato (da sottolineare le scene in cui il medico tratta il suo “paziente” alla stregua di una cavia di laboratorio). Non viene messo in scena nulla di più di quanto sia già stato raccontato su notiziari, libri o giornali: la storia ha avuto una cassa di risonanza così ampia che oggi non ha più misteri da svelare. Foster si impegna, ma si scontra con una controparte originale dieci volte più carismatica e controversa. È il classico caso in cui la realtà supera di gran lunga la finzione, due dimensioni che Lance Armstrong è riuscito a fondere forse come mai nessun regista o sceneggiatore sarà in grado di fare.

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Mi piace:
L’uso del found footage e la determinazione di Ben Foster

Non mi piace:
È un racconto di fatti in sequenza, niente di più.

Consigliato a chi:
Ha avuto Armstrong come idolo e ha bisogno di una conferma in più: i falsi dei, prima o poi, cadono.

Voto: 2/5

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