Cannes 2011 – La pelle che abito: Almodovar come Cronenberg, in un horror a metà

Toni forti per l’atteso film del regista spagnolo. Che racconta una storia piena di morte e violenza per trattare i temi che gli sono più cari: il desiderio e l’identità sessuale. Ve lo raccontiamo in anteprima

Sgombriamo il campo dagli equivoci: La pelle che abito non è un vero film horror. Ci sono giusto un paio di sequenze in cui il film lascia presagire una svolta da torture-porn (con echi persino di Martyrs) che poi non prende. Ad Almodovar interessano le solite cose (quali cose ve lo dico tra un po’), e come Kaurismaki, i Dardenne, Malick e Von Trier prima di lui, non fa niente per nasconderlo. Anzi, tutto il contrario: in questa fiera dell’autismo d’autore pigia pure lui il pedale finché può.
La pelle che abito racconta la storia del dottor Robert Legard (Antonio Banderas), un chirurgo plastico che sta portando avanti un progetto privato di ricerca sugli impianti di pelle per gli ustionati gravi. Per farlo utilizza come cavia una donna, Vera (Elena Anaya), che tiene segregata all’ultimo piano della sua villa. Chi sia e da dove venga Vera (il nome non è un caso) non è dato sapere. Almeno fino a quando, dopo l’intrusione in casa di un rapinatore che la violenta, un lungo flashback – siamo appena a metà film – svela i legami e la natura dei personaggi, ribaltando completamente le prospettive.

Di più non si può dire, se non dichiarando il colpo di scena su cui si regge l’equilibrio del film. Almodovar mischia grottesco e melò, facendo al solito largo uso di slittamenti temporali, ma la novità è appunto nell’aggiunta dell’elemento horror, che dà al film toni tipicamente cronenberghiane (impossibile non pensare a Inseparabili). Bisturi e divaricatori incidono, affondano e modificano la carne (sempre fuori scena però), attivando cortocircuiti di significato che obbligano letteralmente lo spettatore a una partecipazione attiva rispetto a quel che vede: del proprio desiderio e quindi del proprio senso etico. E infatti il disagio sfocia spesso nelle risate della sala – che si sente autorizzata dalle punte grottesche del film – anche perché Almodovar non “aggredisce” mai chi guarda e ascolta per ottenere l’effetto che gli interessa, lasciandogli la libertà di fare/pensare/sentire un po’ quel che crede (il contrario di Kaurismaki per esempio).
E in questo senso il suo film è tra quelli migliori, in questa selezione del Festival di Cannes che si conferma una volta di più di ottimo livello.

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